1992
…e spicco il volo!
È il primo libro “tutto mio”, pubblicato in solitaria.
In copertina: Angelo Giannelli, Venere
Edizioni del Rosone, Foggia
Com’è successo?
Arrivata a Pordenone nel 1977, oltre a cercare di inserirmi in un ambiente sociale distantissimo da quello da cui provenivo, San Severo, continuavo a mandare alla mia bravissima maestra, Wilma Ceci le mie composizioni poetiche, sulle quali ricevevo interessanti feedback. In una delle lettere tra noi intercorse, mi chiese se l’autorizzavo a passare, a far leggere a suo fratello Antonio (Preside dell’istituto Magistrale E. Pestalozzi da me frequentato) le mie poesie.
E il Preside, ancor più della sorella, mi incoraggiava a continuare. Non solo, qualche anno dopo, poiché la mia produzione si era fatta sostanziosa (la prima poesia l’ho scritta a dieci anni), mi propose la pubblicazione di un’opera omnia, una raccolta ordinata delle mie poesie. Lo ricordo come fosse ora! Io mi imbarazzavo, autostima sotto i tacchi! E così declinai la proposta. Uno degli errori (grandi!) della mia vita.
Mi chiese di poter mostrare al direttore della collana di poesie “Foglie d’erba” quanto gli avevo inviato.
Giuseppe De Matteis, Ordinario di Letteratura italiana, mostrò interesse e chiese un incontro con me, tramite il mio ex Preside. Così in estate, libera dagli impegni scolastici, trovandomi a San Severo, andai insieme al Preside e alla moglie, a Foggia per l’incontro.
Fu emozionante per me. De Matteis espresse parole molto positive sulla mia produzione poetica. I primi versi io li paragonavo ai messaggi dei naufraghi, nell’atto di mettere un messaggio in bottiglia che lanciavano in mare sperando che venisse raccolto da qualcuno ed essere salvati, un giorno. Erano composizioni cortissime, secche, disincantate, ma vere, profonde. Ungaretti mi era stato Maestro. Penso che la mia Anima (il Timoniere) parli da sempre il linguaggio della poesia.
De Matteis mi propose di pubblicare nella collana da lui diretta. Non poteva però fare la Prefazione, per mantenere una posizione di neutralità, super partes, rispetto agli altri autori.
Fece una scelta delle poesie, che approvai. Poteva essere diversamente? Mi fidavo totalmente di lui!
Mi lasciò la scelta di un prefatore. La scelta fu facile: Anna Sartori Giannelli.
Nell’anno scolastico 1977-78 feci al suo posto la prima supplenza lunga: da gennaio fino alla fine dell’anno, con diritto al pagamento dei mesi estivi e il punteggio di un anno intero.
Anna (e il marito Angelo, pittore), divennero presto figure familiari. Lei mi diceva che avevo “i genitori del sud” e loro erano “i miei genitori del nord”. Avevano l’età dei miei e c’erano altre singolari coincidenze (giorno di nascita, anno…).
Anna fece la Prefazione. Per la copertina mi affidai a lei e ad Angelo. Il titolo del libro era “Funamboli del cuore”, raccolta di versi giovani, di amori acerbi, quasi inconsapevoli, delle mie fughe, del perdermi, delle delusioni, del ritrovarmi, sempre attraverso la scrittura, termometro del mio essere. Entrambi erano depositari della mia vita e delle confidenze, perché quando mi invitavano a pranzo, potevo sfogarmi e ricevere un ascolto attento e molti affettuosi consigli.
All’insaputa l’uno dell’altro la scelta della copertina converse su un quadro di Angelo, Venere, che ritrae una giovane ragazza in primo piano, dal viso abbozzato e dietro un mare di fiori, cespugli. E copertina fu!
Parlare delle poesie di Maria Pina la Marca è parlare di lei, del suo modo di vivere senza ipocrisie, sgranando l’esistenza in un rosario di emozioni, acese o tenui, comunque preziose; è parlare dei suoi conflitti senza ostilità, della sua giovinezza che non viene corrotta ma levigata dalle esperienze amare. […]
D’amore sono tutte le sue poesie, penetranti, sensuali, trasparenti e interlocutorie, stillate nella sintassi della sincerità e dell’armonia, tormentate ma non tortuose, che pongono rade condizioni, nessuna esclusione, come vuotare il sacco dei propri talenti ai piedi di chi si riconosce o si vagheggia prezioso: dell’uomo alla fonte dei cui occhi bere o di cui ama le faccette poliedriche dei difetti; del padre che ha tristezze mal celate; della madre con sguardo dalla profondità che sgomenta; della Puglia dove l’eucalipto scorticato dal vento apre il proscenio sulla terra della memoria; di Venezia dal colore sconosciuto.
Una che scrive molto e con lucidità, sempre a tempo di ciò che sente, in proporzione di quanto sente; incurante di tributi non pagati, dona le sue poesie con la generosità dissennata che distingue gli artisti, ma guai a lasciarle cadere. Versi che nascono dentro l’essenza delle cose e che fluidificano sedimenti emotivi per molti intoccabili.
Versi lontani da stanche schematizzazioni e da lasciti culturali che non hanno più bisogno di conferme e di riscontri; versi confortanti, grazie alla vigilanza nel comporre e nell’esprimere, come cenere calda, anche quando sono intrisi di rammarico o densi di rimpianto: sempre hanno quel margine di dolcezza, che distoglie dall’irreparabile; quel riverbero di forza che fa sostenibile l’angoscia, per cui dal coinvolgimento nell’intrico dei suoi malesseri si risale infine a un picco di fiducia, senza che vadano perdute la sostanza e l’estetica delle immagini poetiche. […]
Abbiamo, mi sembra, in questo volume che molte ne esclude, poesie di semplice partitura, ma piene di quei riverberi dell’intelligenza che danno misura alle fughe dell’anima e alle sue ebbrezze senza nulla togliere alo spessore delle composizioni, mostrandone invece le radici.
Nonostante le zone d’ombra, Maria Pina la Marca si mostra qui in tutta la sua sincerità e la sua disciplina, forte e fragile amabilmente instabile come le fronde il mare le nubi, come i pensieri bordati d’oro di chi si impegna ad amare sempre, che vuol dire soffrire. Impegno fruttuoso se dà versi che sembrano di pasta celeste: Cadi cuore mio su questo foglio così potrò cancellarti.
Sono una
lanterna
cieca
contro cui
sbattono
falene
Un miliardo
di granelli di sabbia
per un milione
di stelle lucenti
per un migliaio
di pesci guizzanti
per cento baci
non dati
fanno un mare
di pensieri impudenti
Le parole che non sappiamo dire
giacciono in fondo al cuore
Parole mai sentite
certo mai modulate
non abbiano ricordi
ma aspri tamburi
che suonano in difesa
Il muretto a secco
dei ricordi
non è stato smantellato
e si resta coperti protetti
difesi ancora un poco
Anima
È uno spaventapasseri
dolente
animato dal vento
che ne solleva le maniche
in lenti rituali gesti
da uomo
La scia dell’uccello d’acciaio
è il filo della speranza
dall’iperbole strana
che si perde oltre il rosa
all’orizzonte
“(…) la raccolta di liriche di Maria Pina la Marca, dal singolare titolo Funamboli del cuore vagamente riecheggia Aldo Palazzeschi:
Son forse poeta?
No, certo.
[…]
Son dunque un pittore?
Neanche.
[…]
Un musico allora?
Nemmeno.
[…]
Son dunque…che cosa?
Chi sono?
Il saltimbanco dell’anima mia.
(Poemi, 1909)
e sembra un lusus, un raffinato divertissement ma si conduce in direzione di estrema serietà. Al di là delle immediate apparenze non una sfavillante (e quasi clownesca) arguzia, una graffiante carica ironica, ma un approccio atipico che restituisce nei versi una sotterrane forza di espressione.
Bello -e nuovo- il datare di brevi liriche con una progressione cronologica che ci dà una storia, una progressione di vita.
Sono da leggere tutte e poi da gustare, non tanto perché ha scritto nell’epigrafe:
Cadi, cuore mio
su questo foglio
così potrò cancellarti!
ma soprattutto perché poetare è vivere nel senso più alto, serve ad estrinsecare. A decantare il tumulto di affetti che nel fondo si agita, a decifrare il magma, il groviglio, a fissarlo una volta per tutte in limpide forme di pensiero e -persino- a contemplarlo. (…)
Nello spietato arrivismo che guida il mondo di oggi e genera aridità e freddezza dovremmo essere grati per questo dono di poesia -tormento ed estasi per l’Autrice- che ci allieta con la musicalità del canto, con la mesta dolcezza delle parole, raggrumate in assolutezza intangibile.
Maria Vittoria Venturo Lamedica
Con toni sommessi, ma a volte anche con rabbia, l’intento primario di Maria Pina la Marca è quello di narrare, di comunicare e tra le righe si legge un’altra poesia, che non è solo d’amore (sarebbe riduttivo pensarlo); affiorano coriandoli del suo carattere, che si intuisce difficile, forte, introverso ma capace di grandi slanci, di infinite dolcezze, c’è uno spessore molto intimo, un ritaglio di esistenza che forse la poetessa non vorrebbe svelare e tuttavia si presenta in certe sfumature linguistiche, in certi toni mal smorzati. Così il desiderio di comunicazione si attua, superando i confini di quella che era l’intenzione palese della giovane brava autrice. (…)
Scopriamo una donna che scrive e vive di getto, con coraggio, senza barare, legata tanto al sogno, al ricordo, al rimpianto, quanto al quotidiano, aperta alla speranza pure nei momenti di angoscia.
Ma questo è il risultato di una lettura ancora superficiale, è soltanto la faccia di un poliedro; leggendo e frugando, scavando tra le pieghe degli aggettivi, affiorano altri contenuti, il mondo segreto ci svela i segreti di un’anima di tormentata, di una donna-tigre dal cuore di porcellana, fragile e sensuale, lucida, critica con se stessa. (…)
I suoi versi più sinceri sono racchiusi in uno scrigno. Per leggerli bisogna trovare la chiave.
Stefano Capone
Il tempo se lo mangiavano gli occhi
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mario momi — luigi molinis — maria pina la marca
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