2006
Nella casa dove sono rimasta, dopo che tutti se ne sono andati e finalmente si è fatto silenzio, mi trascino pigra i impolverata con i miei vecchi vestiti addosso, e le scatole arrampicate sui muri scoppiano di pezze prese nei mercatini sudati del venerdì. Ormai sono libera di non perderne neanche uno, e ho tutta la mattina per stare in mezzo alle baracche a rovistare a piene mani, fra stoffe colorate e sporche che qualcuno, per sempre sconosciuto, ha indossato tanto tempo fa.
(Mariateresa Di Lascia, Passaggio in ombra, Feltrinelli, 1995)
Associazione Le Donne del Vino, Milano
Era l’autunno del 2005.
Sotto i miei occhi, leggendo non ricordo più dove, mi balza agli occhi un concorso per un racconto inedito, collegato a una figura femminile e al mondo che ruota attorno al vino. Si poteva scegliere l’incipit di un autore gradito, le cui prime dieci righe sarebbero state l’incipit del racconto dei partecipanti.
All’incipit doveva seguire un testo, inedito, “fino a un massimo di 80 righe, pari a 7115 battute, carattere corpo 10, secondo la fantasia e i desideri dello scrittore, purché nel testo appaia almeno un richiamo al mondo del vino e a una donna”.
Il Premio-Selezione Letteraria 2005-2006, ideato da Bruno Sganga, è gestito dall’Associazione Nazionale de Le Donne del Vino.
In giuria personaggi del mondo della cultura e della comunicazione: Mario Cervi, Fabrizio del Noce, Sveva Casati Modignani, Sergio Zavoli.
Il Comitato Esecutivo è composto dalla Presidente Nazionale de Le Donne del Vino, Pia Donata Berlucchi, dal dottor Bruno Sganga, dall’addetta stampa Anna Pesenti e dalle socie: Ornella Venica per il Nord, Elisabetta Tognana per il Centro e Gaetana Jacono per il Sud, in rappresentanza dell’Italia tutta associativa.
I racconti pervenuti sono stati 372.
Degli scriventi 156 hanno un’età compresa tra 41 e 60 anni, 143 dai 20 ai 40, e 28 oltre i 61 anni.
Variegati i mestieri/professioni: impiegati (103), insegnanti (35, tra i quali io), studenti (30), giornalisti e pubblicisti (28), casalinghe (26), liberi professionisti (22, architetti/avvocati/ingegneri), pensionati (21), consulenti aziendali (8), medici e farmacisti (7), scrittori (6), commercianti (6), traduttori e interpreti (5), dirigenti d’azienda (5), infermieri (5), disoccupati (5), imprenditori (4), critici d’arte e galleristi (2), poliziotti e vigili del fuoco (2), baristi e camerieri (2), pittori e designer (2), pizzaiolo (1), operaio metalmeccanico (1), fioraia (1).
20 gli autori a cui i partecipanti si sono ispirati, in percentuale di preferenza: D. Buzzati, D. Maraini, S. Tamaro, S. Casati Modignani, A. Bevilacqua, G. Deledda, N. Ginzburg, G. Lagorio, E. Morante, M. Serao, I. Bossi Fedrigotti, M.T. Di Lascia, P. Festa Campanile, C. Alvaro, Y. Lussu, B. Solinas, L. Bonanni, G. Prezzolini, D. Garret, F. Jovine.
Io scelsi l’incipit di “Passaggio in ombra”, un libro di Mariateresa Di Lascia, pugliese come me, morta prematuramente a 40 anni nel 1994. Il libro fu pubblicato postumo e nello stesso anno, 1995, vinse il Premio Strega.
Nella casa dove sono rimasta, dopo che tutti se ne sono andati e finalmente si è fatto silenzio, mi trascino pigra i impolverata con i miei vecchi vestiti addosso, e le scatole arrampicate sui muri scoppiano di pezze prese nei mercatini sudati del venerdì. Ormai sono libera di non perderne neanche uno, e ho tutta la mattina per stare in mezzo alle baracche a rovistare a piene mani, fra stoffe colorate e sporche che qualcuno, per sempre sconosciuto, ha indossato tanto tempo fa.
Mariateresa Di Lascia, Passaggio in ombra, Feltrinelli, 1995
Mi sono sempre chiesta chi li avesse indossati. Chi avesse avuto quegli abiti, quelle scarpe, quei giocattoli, buttati così alla rinfusa e senza dignità. Cumuli frugabili. E la gente che si accalcava anch’essa ne aveva ben poca di dignità. A parte qualche signora bene, in abbigliamento sportivo e occhiata da entomologo che aveva sguardi per le cose e le persone, ma soprattutto alla ricerca dell’affare.
L’urgenza della miseria, dell’ignoranza, muovevano quella massa anonima, popoloso formicaio, quelle mani frenetiche, quelle gomitate, quel darsi nei fianchi, quell’afferrare ciò che non è tuo e neppure suo, ma che già un altro ha preso. E occhi di sfida: “Bella fe’…”, quando le parole uscivano tante.
Lì, al mercato, alle bancarelle dei cenci americani (li ho sempre sentiti chiamare così, e forse il nome origina dal dopoguerra) il mio spirito si sentiva in pace e disturbato nello stesso tempo. Mi piaceva vagare tra quella gente sconosciuta. Sconosciuta anch’io. Il tempo che passavo a osservare, a riempirmi gli occhi e le mani, svuotava i mulinelli della mente. Alleggeriva quei pensieri che spesso la facevano da padrone.
L’alternanza delle sensazioni era dovuta al disordine, alla folla scomposta, a quello di fuori he richiamava il mio dentro. Ma anche al desiderio di ordine, di far ordine.
E la voglia di guardare chi affollava le bancarelle mentre gli ambulanti urlavano convenienze ripetendo ossessivamente il prezzo: “Cinc…cinc…cinc..cinc…e cinc!” E poi di nuovo a parlare fra loro, a raccontarsi incuranti e vigili sulla folla, in piedi oppure poggiati appena un po’ all’alto sgabello.
Era l’ultima volta che compravo qualcosa. Ma l’avevo già detto altre volte. Come lo smettere di fumare di Mark Twain. Mi avevano detto che lo Spirito di una persona lascia tracce negli abiti usati. Forse per questo non ho mai voluto la vestaglia di cotone estiva, di mia madre. Una presenza nell’armadio, come di controllo, o come esserci, dato che siamo molto distanti geograficamente.
Cercavo di allontanare i pensieri mentre sciacquavo le pezze, i ritagli colorati comprati venerdì scorso.
Aspetto Carlos, il mio bambino. Zapher me lo riporta per ora di cena.
Ho avuto il tempo di svuotare i pensieri, far ordine, fantasticare con i frammenti che ho trovato venerdì al mercato. Farmi prendere dalla magia dei colori, dalla consistenza delle stoffe, dal toccare, dal lasciarmi toccare, accarezzare. Alcuni mi parlano di posti lontani. Ho messo insieme quello che ciascuno mi raccontava, da solo o combinato con altri. Ho fatto improbabili dòmini come se un invisibile filo li collegasse, tutti, pur nella loro marcata unicità. Ho messo le pezze lavate e asciugate prima sulla scacchiera invisibile della mente e ognuna mi ha raccontato di sé, della sua vita. Ho tramato gli orditi di pezzi non vecchi, finiti -loro belli- fra stoffe ordinarie per tessuto e manifattura. Hanno i colori che piacciono a me. Poi sul pavimento, li ho messi qua e là.
Ora la geografia della mente è il bagno, dove ho acceso candele ai quattro punti cardinali. E non solo.
Ho girato scalza, sul pavimento a doghe larghe della mia casa. Aperto una delle bottiglie dell’ultima vendemmia: merlot barricato. Me le ha regalate Pietro, che le ha prodotte, inizio di timido corteggiamento.
Metterò una musica che mi accarezzi. Sarà Sud e Sud America. Sarà sicus e pezuñas. Sarà charango e vento. Sarà danza di Cala Luna. Sarà Perù. Sarà Carnevale.
Ripercorro la strada dalla cucina al bagno, camminando sulle stoffe che ho poggiato, come sassi per attraversare il fiume.
È aspro questo vino, erboso come piace a me. Chiede attenzione al palato. Non ama scendere in solitudine. Minotauro insaziabile chiede di essere preceduto o seguito da obolo di carne. Prosciutto crudo dolce e speck affumicato, come vergini sacrificali. Poi lui scende, ripulisce, accarezza, riempie la bocca. Con un colpo di diaframma lo mando al naso che conferma il sapore boscoso, di corteccia.
Posso entrare con i miei pensieri che mi seguono come i cento sé sotto pelle. Li dissolverò nell’acqua che scioglie. E scioglie ciò che va sciolto.
Trascent, come dice mia madre, per dire di un vino che scivola giù naturale.
Il bicchiere è sul bordo della vasca. Scende la vecchia camicia, si inginocchiano i pantaloni. Il reggiseno, con inutile lentezza.
Gli slip. Sollevo un ginocchio, il piede è nell’acqua, poi l’altro. Scivolo lentamente, come l’ultimo sorso di vino. Intorno ho luci morbide di gialle candele. Suona in sottofondo il Carnavalito. Benvenuti al mio Carnevale.
Prima che torni Carlos.
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