2013
Venezia mette ali ai piedi. E i miei sono lunghi. Come gondole. Zattere. Ma anche ali. Ali d'uccello, di bianco gabbiano. Sento risuonare i miei passi mentre cammino nelle calli.
Questo libro racconta, in prima persona, ciò che accade, negli spettacoli di lirica, dietro le quinte di un teatro, in questo caso La Fenice di Venezia. Ci guida un attrezzista friulano che per vent'anni ha lavorato con i più grandi registi e cantanti del mondo della lirica, Diego Del Puppo.
In copertina: G. Rossini, L’inganno felice, prodotto dal teatro La Fenice per il teatro G. Verdi di Padova, 1998. Foto di Diego Del Puppo — Rielaborazione Studio Fotografico Profili, Pordenone
MediaNaonis Editrice, Pordenone
978-88-908153-00
Mi sono trovata quasi casualmente, il 31 agosto di tanti anni fa ormai, a una mostra fotografica del Circolo “La Finestra” di Porcia (Pordenone). La mostra si sviluppava in altezza, all’interno del campanile della cattedrale di San Giorgio, dalla caratteristica scalinata in pendenza, senza scalini, fino alla sommità dalla quale si domina la pianura pordenonese.
Il guardiano di quel giorno era un bel ragazzone alto quasi un metro e novanta, con gli occhi marroni, curiosi e buoni. L’ho avvicinato per avere informazioni e, complice la sua disponibilità alla chiacchiera, mi ha raccontato, tra le altre cose, che aveva lavorato per circa vent’anni al teatro La Fenice di Venezia. Alcune delle foto, suggestive, erano le sue.
Subito ho sentito che avrei dato voce alla sua storia, col suo permesso. Mi piace il teatro, mi piace in generale quello che è dietro, che non si vede, come dietro le quinte di un teatro dove si svolge una vita intensa che i più non conoscono, se non addetti ai lavori.
In genere è più facile parlare di chi ha ribalta, di chi è sul palcoscenico. A me piaceva l’idea di dar voce alla sua vita sconosciuta, non sotto i riflettori, ma altrettanto importante, proprio come la Vita di ciascuno di noi.
Diego Del Puppo, questo il nome del protagonista, veniva a casa mia con la frequenza richiesta dal lavoro a raccontarmi “il suo” teatro. La scelta di usare la prima persona mi è parsa quella più giusta.
Lui raccontava, io registravo, facevo domande, poi sbobinavo, raccoglievo ulteriori informazioni, per entrare nella sua storia. È stato necessario tornare a Venezia: per lui che aveva chiuso col passato, per me per vivere il teatro “dietro le quinte”, conoscere i suoi compagni di lavoro. I capitoli sono inframmezzati dai pezzi come di un puzzle, della storia della sua famiglia.
E a casa scrivere, revisionare, dare un ordine al materiale sparso che avevo raccolto, con in sottofondo le opere che lui ama di più: Turandot, Traviata, Aida, Tosca.
Il libro inaugura la serie della narrativa della casa editrice MediaNaonis.
Questo libro ci consente di vedere le cose al rovescio. La cosa che mi ha affascinato di più di questo racconto è la capacità di far incontrare due mondi: quello materiali, reale, realistico, concreto (che in teoria dovrebbe essere privo di poesia e leggerezza) con il mondo magico che è l’opera.
La prima riflessione che faccio è che l’opera, ovvero il massimo dell’invenzione, il massimo della fantasia, del mondo virtuale, non funziona se c’è qualcosa nel materiale che non va. Se non va, se durante lo spettacolo c’è una quinta che si rovescia, se c’è l’ingresso di una sedia che avviene nel momento sbagliato, un cantante che si siede e si rompe la sedia, è chiaro che tutto l’incanto non funziona.
Maria Pina ha messo in modo intelligente in fondo al libro dei documenti bizzarri: Non sapevo che ci fosse una cosa che si chiama “distinta attrezzi”, Opera “La Favorita”, regia Luciano Pavarotti:
N °10 alabarde ottone lucido su bastone nero
N° 25 mazzi fiori stoffa con nastro giallo -bianco (fiori bianchi)
N° 1 collare a placche quadrate in filigrana dorate con pietre blu e strasse
N° 1 paio orecchini in filigrana dorata con pietra blu e perlaN° 2 cuscini velluto operato grandi beige cm 70x70
e molto altro ancora.
Il libro è pieno di aneddoti che ci consentono di vedere questi grandi personaggi (penso a Pavarotti) non nella sua immagine pubblica, quello che vedevamo quando cantava, ma quei dieci minuti prima che uscisse. C’è l’episodio simpatico del libro, della spada macchinata e da questa esigenza concreta nasce l’aneddoto. Il mondo delle cose materiali rimane nascosto. Ognuno di noi non vuole sapere cosa accade dietro le quinte. Dietro le quinte è tutto molto falso, è tutto fatto di cartapesta, però preferiamo ed è importante non saperlo. C’è una specie di contratto non scritto quando si entra a teatro. Tu devi immaginare che ciò che vedi sia reale. Ecco, questo libro ci consente di entrare in punta di piedi e assistere assieme a Diego a questi preparativi bizzarri. A queste cose che sembrano di un altro mondo.
Un’altra delle linee che il libro ci suggerisce è che a un certo punto non si sa più cosa sia vero e che cosa sia teatro. Il teatro a volte è più vero della vita, perché mette in scena la vita nella sua essenzialità e quello che succede dietro le quinte, che è vita vera (perché lui prendeva uno stipendio, perché lui si martellava le dita, perché lui saldava, quindi quella è la vita vera) a volte fra le pagine ci sembra un enorme gioco, un’enorme illusione. Non si capisce più chi sta giocando, se il regista che s’inventa queste cose o loro dietro le quinte che, mentre avviene la messa in scena, avviene l’opera teatrale, vanno tranquillamente a bersi il caffè al bar accanto, aspettando che cambi la scena. Ecco, i due mondi sono entrambi paradossali.
La storia è bellissima e interessantissima, però mi è rimasta un po’ la curiosità di sentire qual è l’altra protagonista nascosta di questo libro, cioè la scrittrice.
Paolo Venti
Quando Maria Pina la Marca mi ha proposto di leggere la sua ultima opera “La mia Fenice, dietro le quinte”, ho accettato subito perché da anni conosco e apprezzo lo stile efficace e coinvolgente dell’autrice. Anche questa volta non sono rimasto deluso e ho letto il libro tutto d’un fiato, comprese le appendici finali. Maria Pina è riuscita ad interpretare l’esperienza di Diego Del Puppo, ispiratore dell’opera, realizzando un percorso che cattura il lettore affascinandolo immediatamente, sia per l’argomento decisamente nuovo per i non addetti ai lavori, sia per gli straordinari messaggi che esso racchiude. Particolarmente significativo l’inserimento dei momenti legati all’adolescenza e en l percorso scolastico che consentono di completare il quadro della testimonianza.
L’opera riesce a proporre l’attività dell’attrezzista teatrale all’interno de La Fenice, abbracciando le altre figure che a vario titolo riescono armonicamente a concretizzare la realizzazione dello spettacolo. La descrizione entra nei particolari tecnici con ampio dettaglio, appassionando per la semplicità della loro esposizione, dimostrando la grande esperienza maturata e la ricca creatività espressa, elementi che fanno riflettere sull’enorme patrimonio culturale e artistico gravitante nel teatro. Di conseguenza, il libro illustra anche i vari programmi comprendenti le principali opere e balletti allestiti e presentati nel celebre teatro veneziano, dal 1983 al 2001. Di fatto un diario storico, nel quale sono citati anche retroscena inediti, legati a famosi interpreti e registi.
Del lavoro
Ogni volta che si faceva una prima ero emozionato. Ero in simbiosi con i cantanti, un po’ agitato dentro, ma sicuro del fatto mio. L’agitazione era dovuta al fatto che poteva sempre succedere qualcosa, anzi, a teatro si convive con l’imprevisto. Quando c’è lo spettacolo, noi siamo divisi nelle due quinte di destra e di sinistra, quattro di qua, quattro di là, noi dell’attrezzeria. Però poteva anche essere richiesto diversamente, dipendeva dal lavoro che c’era da fare da una quita all’altra. […] Ci trovavamo tutti nella quinta a sinistra. Eravamo un gruppo affiatato. Ci eravamo definiti il “Broncs”, scritto proprio come si pronuncia, perché eravamo giovani, scapestrati e forse un po’ sfigati. Avevo fatto un cartello in legno, pitturato, con la scritta in stampato maiuscolo. BRONCS. L’avevo attaccato al muro della quinta. Era scritto sbagliato, lo so, ma nessuno me l’aveva fatto notare, anzi poi il cartello l’ha preso per ricordo il maestro di palcoscenico, Silvano Zabeo, l’ha portato via quando si è incendiato il teatro. Una sera mi ha detto che l’avrebbe tenuto nel camerino, in mio ricordo.
Era una quinta viva, succedeva di tutto.
Della famiglia
La gente chiacchiera. Quando anno la mezza sala (cioè abbassano le luci) vuol dire che l’opera sta per iniziare ù. La tensione sale. D’improvviso silenzio. Buio in sala. Si apre il sipario. Venezia. Calle del Perdon 1303. Lì sono nato, il 26 marzo 1963. Per meglio dire, all’Ospedale della Pietà, dietro alla chiesa omonima, in Campo della Bragola, proprio nel punto da dove si guarda la riva degli Schiavoni. Mia madre mi ha raccontato che una volta lì nascevano i figli di ragazze madri, o che venivano abbandonati, perché l’ospedale era più raccolto.
Mio padre, Antonio (da piccolo lo chiamavano Tonin) e mia madre Ivana si erano sposati a Vicenza nel 1960. Lei aveva 21 anni, lui 32.
Ho letto il libro e la prima cosa che mi viene da scriverti è che tu sia una bellissima persona! Complicata e semplicissima nello stesso momento. Complicata in quanto complessa, erudita, con le abitudini da single, di carattere non facile, ma semplicissima in quanto possiedi una spontaneità unica, in quanto sei generosa e di atteggiamento non altezzoso che molti, al tuo posto, assumerebbero.
Sono rimasta colpita dalla scelta di dare voce ed importanza a uno sconosciuto, ad un anonimo che ha avuto da raccontare molto: bellissimo!
Interessante il mondo dietro le quinte, per una come me che non ne sapeva molto. Coinvolgente e divertente, come le tue lezioni. Scrivi come parli, non annoi, non si sente lo sforzo e se ti legge colui che ti ha sentita parlare, la tua voce accompagna durante tutta la lettura.
Complimenti di cuore! Proprio brava!
Maša Kapun
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